To the Wonder (recensione): le declinazioni dell'amore, profonde e superficiali

La locandina del film
Un espressione lenta , leggiadra e poetica, rilasciata da pensieri che solo nella mente hanno vita e attraverso le parole scemano in contorni troppo vacui per risultare profondi. Una soluzione immaginifica adatta solo al conscio che si scontra con la razionale conseguenza dello Stream of Consciousness, impattandola e sviscerandone le dirette differenze. Terrence Malick, reduce dal plauso fragoroso per Tree of Life al Festival di Cannes, redige l’ennesima opera dove l’amore è l’unica colonna portante, 
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in qualsiasi situazione si trovi, passando per i fischi e le disapprovazioni che alla Mostra del cinema di Venezia 2012 hanno inondato un’opera dai contorni labili, ma dalla profondità unica.

To the Wonder assapora la struttura poetica del precedente contesto filmico e strizza
Ben Affleck e Olga Kurylenko
l’occhio alle diversità linguistiche incontrate nel verde di The New World, ma sintetizza come concetto sia sintomatico sia di superficie, quel sentimento caro all’umanità che impedisce di realizzare la felicità, mentre segretamente la coltiva dall’interno. Come Aleksandr Sokurov aveva inchiodato il fruitore, sia esso medio o tecnicamente avvantaggiato, sulla poltrona della sala buia, giostrando un magnifico contorno epico e mitico tra noia, lentezza e disfacimento, Malick si concede il lusso di incontrare l’Amore in prima persona, chiedergli quale natura intima generasse nel corpo degli esseri umani, quale ragione avesse per continuare a persistere nel suo metodo imprescindibile.

Olga Kurylenko e Ben Affleck
Forse chi aveva criticato aspramente la geniale e sistematica gestione di questa pellicola, aveva carpito ad un livello solamente liminare, un approccio vacuo sulla spiegazione del sentimento più grande, non accorgendosi che scavando in profondità, nell’abisso del cuore dei personaggi, l’Amore concede eterne sfaccettature che solo con l’assidua concentrazione ed attenzione, coadiuvata da un senso di logica e di totale abnegazione, si possono raggiungere. To the Wonder si intromette nelle credenza popolari e le smista, le provoca, gestendo un percorso che non ha fine, se non quella dell’accensione delle luci in sala, che Malick sembra voler continuare in un loop infinito, continuativo, stressante, al quale non puoi farne assolutamente a meno.

Proprio nel livello liminare, Neil (Ben Affleck), americano silenzioso ed affettuoso e
Ben Affleck e Javier Bardem
Marina (Olga Kurylenko) francese bimba spensierata ed adulta sensuale, sono immersi nella bellezza, nella tenerezza, nell’amore, nella meraviglia che da Mont Saint-Michel sembra scemare nella successiva cattività dell’Oklahoma. Uno sguardo attento e meticoloso, mai conseguente, ascolta i pensieri profondi e le parole sterili dei due, fino alla momentanea rottura, dovuta alla scadenza del visto di lei e alla poca propensione allo sposalizio di lui. Jane (Rachel McAdams) è l’americana piena di voglia d’amare e d’amore al quale però viene concesso solo un momentaneo trascorso passionale insieme a Neil che infine torna tra le braccia libere di Marina, ora finalmente legata a lui per legge.

Olga Kurylenko
Questa dote d’amare viene tallonata dalla figura di padre Quintana (Javier Bardem) che proprio nel momento in cui il concetto filmico si affacci alla sua porta, lo trasporta dimenticando momentaneamente la fede che lo aveva fatto divenire l’uomo che è. I pensieri però lasciano presagire un futuro costellato di ostacoli nella coppia, a volte insormontabili, dove il peso che genera l’amore ha delle diversità sostanziali dipendenti da ogni singola persona, stampati nella mente come schiette e semplici constatazioni linguistiche, declinazioni di inglese (Neil e Jane), francese (Marina), spagnolo (padre Quintana) e italiano (Anna, Romin Mondello) che relegano in mondi propri tutti gli attanti dell’opera.

Malick in tutto questo ha tagliato fino al midollo il girato, cacciando attori di prima linea
Rachel McAdams e Ben Affleck
dall’intero progetto, perché le loro scene non erano utili alla forma e alla messa in scena, utilizzando inoltre un montaggio (già per altro simile al precedente film) atemporale, dove gli aspetti della vita vengono tagliati e ridotti al minimo essenziale per essere capiti, passando dall’amore all’odio, dall’odio al silenzio, dal silenzio all’incomprensione ed ancora all’amore, in una ricerca serrata e reale, ma dalla resa poetica, del sentimento cardine dello stile malickiano. La poesia inoltre è stimolata da un continuo ascolto della natura, dei paesaggi, perfetto attore non parlante in una filmografia dettata dalla sguardo e dalla poesia che fin dalla guerra de The Thin Red Line ottiene il suo più grande compagno di vita.


Il regista Terrence Malick
Un’opera unica, difficilmente ripetibile, da assaporare appieno, che facilmente disturba nel momento in cui, anche solo per un momento, la concentrazione viene meno, ma che non può non affascinare per lo stile e la resa, per le immagine di assoluta bellezza, per la forza e l’impatto, ma soprattutto per la sfacciataggine di un regista che coniuga la superbia incontrollata dell’opera prima, la disturbante acutezza del concetto d’avanguardia e lo stile inconfondibile del cineasta d’esperienza. Ancora una volta, l’ultimo grande autore della settima arte, regala tutto quello che c’è da scoprire sull’Amore, scavando nelle oscure profondità e nelle idilliache luci che terminano in quel torpore cauto e soddisfacente. 

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